Minori e social network su Internet: gli ultimi orientamenti giurisprudenziali internazionali

Pubblicato sul Quotidiano Giuridico del 16 settembre 2013

In Inghilterra la giurisprudenza si è pronunciata in almeno due casi relativi alla diffusione attraverso i mass media e i social network di notizie relative a procedure riguardanti i servizi sociali e famiglie in difficoltà. Nel caso K (A Child: Wardship: Publicity), la minore, adottata quando già cresciuta, dimostra gravi difficoltà nell’integrazione con la sua famiglia adottiva, che la ama e si prende cura di lei. Tuttavia, esiste un contrasto tra i suoi congiunti adottivi e i servizi sociali. Detta situazione viene divulgata sui giornali e amplificata sui social network, con pubblicazione di dettagli particolari, quali indirizzo e orari degli appuntamenti della giovane con il suo terapista. Il giudice inglese discute il bilanciamento tra l’interesse pubblico alla trasparenza degli atti dell’amministrazione, specie in situazioni così delicate come quelle inerenti le adozioni, il diritto di cronaca ex art. 10 CEDU e le garanzie previste dall’art. 8 CEDU alla giovane e alla sua fragile situazione familiare.
Nel caso J (A Child), una coppia non sposata ha dato alla luce 4 figli, tutti dati in adozione dai servizi sociali. Il padre sfoga il proprio risentimento su Facebook pubblicando materiali relativi ai minori, compreso il loro nome. Il giorno dopo la nascita dell’ultimo figlio, apparentemente destinato a seguire il destino dei fratelli, il padre posta le foto del neonato su Facebook senza mascherarne il volto, nonché esprime giudizi personali poco lusinghieri sugli operatori sociali. Anche in questa circostanza il giudice fa riferimento alla CEDU per bilanciare i diritti alla trasparenza dalla pubblica amministrazione, all’onorabilità delle persone coinvolte e al miglior interesse dei minori. Ciò che si reputa essere interessante in questo specifico caso concerne le parole del Justice Munby, presidente della Family Division, relativamente alla rivoluzione copernicana apportata da Internet, e potenziata dai social network, nella diffusione delle informazioni senza possibilità di un controllo preventivo sull’opportunità delle medesime, specie in caso di coinvolgimento di soggetti bisognosi di particolare protezione, come i minori. Ne consegue, come noto, che Internet è pregno di materiali offensivi, estremi, spesso diffamatori, il quali possiedono solo un labile filo con la verità oggettiva e vericabile. Tali materiali rimangono online a tempo indefinito a disposizione di motori di ricerca sempre più potenti e facilmente accessibili a chiunque voglia recuperarli. Infine, gli Internet provider sono spesso allocati al di fuori della giurisdizione in Paesi dove i provvedimenti interdittivi delle Corti sono ostacolati. Tutto ciò, sempre secondo il Justice Munby, pone delle sfide enormi alle quali è la legge che deve adattarsi come ha sempre fatto nel rispondere alle rivoluzioni tecnologiche avvenute in precedenza. Raccomandando agli operatori giudiziari di evitare di lavarsene le mani affermando che Internet sia incontrollabile, Munby, riferendosi al caso di specie, osserva che a differenza dei precedenti specifici ordini contro i comportamenti del padre, il provvedimento emanando è differente. Infatti, esso è diretto ad arginare gli effetti “mondiali” dello svelamento dell’indentità del neonato garantendo la sua privacy e il suo anonimato nonché ordinando che venga proibita nel modo più assoluto la pubblicazione del suo nome. Mentre per quel che riguarda la pubblicazione delle foto, la loro diffusione risulterebbe meno pericolosa perchè i bambini così piccoli tendono a somigliarsi e a non essere facilmente identicabili, qualora la loro immagine non venisse associata al nome.
In Canada, il caso R v SBS riguarda la vicenda di un’adolescente che divulgava via Facebook sue fotografie sessualmente esplicite autoscattate con uno smartphone. Dagli atti di causa emerge che la ragazza viveva in una situazione famigliare gravemente compromessa, con il padre accusato non solo di aver preteso e usufruito di tali foto della figlia, ma di averla pure molestata e violentata. La peculiarità del caso riguarda il contraddittorio in fase istruttoria sull’utilizzo dello smartphone e delle foto pedopornografiche quali strumenti di prova nel processo a carico del genitore. Nel corso del processo al padre la Corte ha dichiarato ammissibile la disclosure delle foto scattate con il telefono, il telefono stesso e i materiali concernenti Facebook.
In Australia, il caso KWLD -v- The State of Western Australia, concerne l’impugnazione proposta da un adolescente (sedicenne all’epoca della commissione dei fatti) accusato di approcciare attraverso Facebook delle ragazze, che successivamente molestava o tentava di violentare. Condannato in primo grado, impugna la decisione affermando che il giudicante di prime cure aveva equivocato la portata delle prove raccolte su Facebook e sulla modalità dell’approccio comunicativo da parte delle generazioni più giovani, in particolare il linguaggio utilizzato dagli utenti, nonché chiedendo una specifica consulenza di parte sul punto. Il giudice d’appello rigetta l’istanza affermando che non occorre l’ausilio di un esperto per riconocere il significato dei messaggi postati online, in quanto risulta evidente l’approccio manipolativo dell’imputato, indipendentemente dall’utilizzo di un linguaggio gergale e settoriale proprio del mezzo comunicativo.

K (A Child: Wardship: Publicity), Re [2013] EWHC 2684 (Fam) (25 July 2013)
J (A Child), Re [2013] EWHC 2694 (Fam) (05 September 2013)
R v SBS, 2013 ABQB 322 (CanLII)
KWLD -v- THE STATE OF WESTERN AUSTRALIA [No 4] [2013] WASCA 185 (14 August 2013)

Skype e chat prodotte nel processo: privacy del terzo penalmente tutelata

Pubblicato sul Quotidiano Ipsoa del 13 settembre 2013

Il caso
L’ordinanza del Giudice per le indagini di Milano in commento dispone la formulazione da parte del P. M. dell’imputazione per violazione degli artt. 615 ter c. p. e 616, 1°, 2° e u. c, c. p. a carico di un marito poiché costui si era introdotto abusivamente nel profilo personale della moglie al fine di produrre prove dell’infedeltà coniugale della coniuge. Infatti, l’ormai ex marito aveva depositato nel processo civile per la separazione coniugale la stampa delle schermate delle conversazioni via chat intercorse tra l’ex moglie con un terzo, nonché fotografie esplicitamente sessuali scambiate tra i due amanti.

Le motivazioni dell’ordinanza di formulazione della imputazione coatta
Nelle sue osservazioni il giudice si concentra più che sull’intimità del contenuto delle conversazioni, quanto sulla circostanza che per entrare nell’account della coniuge e copiare dette “chattate” l’indagato abbia utilizzato la password della moglie, probabilmente registrate in automatico dalla medesima, onde evitarne la riscrittura, ma abbassando così il livello di sicurezza del suo computer. Viene esplicitato in motivazione che la moglie non avesse mai autorizzato il marito a entrare nel suo account personale di Skype. Infatti, il giudicante afferma che altrimenti l’indagato avrebbe dovuto compiere un’azione ancora più grave, ma non riscontrata dalle indagini, cioè (far) installare uno spyware o “qualche altra tecnologia intrusiva” sul computer della moglie. Il giudice rileva che, depositando le citate conversazioni, l’indagato ha violato il diritto alla riservatezza sia della moglie sia del suo interlocutore, estraneo alla vicenda, la cui vita personale è stata esposta a tutte le persone che possono prendere visione dei fascicoli processuali. Inoltre, non sussiste alcuna giusta causa per la rivelazione delle conversazioni private, poiché la tutela dei propri diritti in ambito civilistico “non giustifica l’adozione di un mezzo delittuoso, del tutto sproporzionato rispetto al risultato da conseguire”. A questo proposito, il giudice cita a conforto della sua decisione un orientamento della Suprema Corte (precisamente la sentenza della Corte di Cassazione, 29 settembre 2011, n. 35383), il quale riguarda analoga violazione della corrispondenza, per aver prodotto in un giudizio di separazione, documentazione bancaria illecitamente sottratta in violazione dell’art. 616 c.p.

Impatto sul dibattito in tema di privacy
Seppure originato da un mero passaggio processuale, il provvedimento presenta alcuni elementi di interesse nel dibattito sulla tutela penalistica della privacy. Il giudice rileva come la chat sia una forma di corrispondenza telematica (tutelata dall’art. 616 u.c., c. p.) realizzata attraverso una serie di messaggi che possono essere ricevuti immediatamente e archiviabili nella memoria dell’accout ,al quale è possibile accedere attraverso la digitazione di password. Questo tipo di comunicazione telematica si distingue dalla conversazione telefonica, nella quale invece i due interlocutori sono sempre in diretta comunicazione tra loro. Si osserva che l’indagato avrebbe potuto dar prova della relazione extraconiugale della moglie attraverso gli altri strumenti procesuali, senza arrogarsi il diritto di “captare” la corrispondenza altrui. Ulteriormente, il giudice osserva che non sussistono i presupposti per l’integrazione del reato ex art. 640 ter c.p. in quanto l’indagato non ha modificato, né è intervenuto sui fluissi di dati, sulle informazioni o sui programmi, introducendo spyware o trojan o modificando i dati dell’account della moglie su Skype o fingendosi titolare del medesimo.

Ufficio GIP del Tribunale di Milano, ord. 17 aprile 2013, Giud. Est. Manzi

Speaking the Murderous and Marvelous – A Brief Tribute to Seamus Heaney

Thom Dawkins

ImageThis tribute was originally given at Case Western Reserve University on Friday, August 30th, several hours after learning that Seamus Heaney had passed that morning. 

Poets have a particular way of greeting one another, and it seems to always involve the same question. You’ll hear it at every AWP conference, every poetry reading, and every shady bar where poets have a tendency to gather.

Who do you read?

It’s a variation of the question we’ve been asked to consider today, and that variation makes for a ridiculous question. First of all, the tense of that question is strange – Who DO you read –  and second it ignores the fact that any poet or devoted reader of poetry is at all times reading everything that we can get our hands on.

Or at least we should be.

But no matter who asks the question, I always start with Seamus Heaney…

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Contraffazione del marchio, dynamic keyword insertion e responsabilità dell’Internet service provider

Pubblicato sul Quotidiano Ipsoa del 29 agosto 2013

Il caso

La questione decisa dai giudici palermitani concerne l’utilizzo del marchio di una nota società di autonoleggio “Maggiore”, da parte di una concorrente, la “Sicily by car”, quale “meta tag” (marcatore nascosto) all’interno dei servizi del motore di ricerca “Google”, al fine di creare un collegamento tra il suddetto nome e il link del sito web http://www.sbc.it, dove la convenuta pubblicizzava la propria attività. Nel dettaglio, l’accusa era di aver utilizzato un collegamento sponsorizzato visualizzabile a margine dei risultati delle ricerche una volta inserite parole chiavi. Queste sono risultate essere “Maggiore” oppure “Maggiore rent” ovvero “Maggiore offerte auto” e “offerte speciali noleggio Maggiore”. Pertanto, nella sezione dedicata agli annunci figurava il titolo “MAGGIORE”, cui era associato l’URL di destinazione, cioè: “www.sbc.it”.
La società di autonoleggio “Maggiore” ha citato davanti alla Sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale del Tribunale di Palermo la società Sicily by Car, la quale a sua volta ha chiamato in causa la stessa Google Inc., Google Ireland Ltd e Google Italy Srl per manlevare dalla responsabilità Sicily by Car e risarcire i danni causati a parte attrice.

La definizione dell’illecito attraverso l’espletamento della CTU

Ai fini della determinazione dell’oggetto di causa e della quantificazione del danno subito al CTU è stato chiesto di individuare il periodo di utilizzo della “keyword” “Maggiore”; il numero di visualizzazioni generate per effetto dell’utilizzo della medesima, il numero di “click” sugli annunci ed il numero di prenotazioni; i periodi durante i quali era stata adottata la tecnica del “dynamic keyword insertion”, con le relative visualizzazioni, i click e le prenotazioni. Il dyamic keywork insertion è quel servizio attraverso cui si permette che “nel caso in cui venga eseguita una ricerca su Google digitando una parola (o una frase) coincidente con una delle keywords associate all’annuncio, tale parola venga visualizzata come titolo dell’annuncio stesso” (p. 43 della sentenza), configurando quindi la contestata contraffazione del marchio. Il CTU osserva che nel periodo intercorso tra il 24 settembre 2004 all’8 settembre 2008 sono state effettuate 1.450.555 visualizzazioni, con 31.170 click sul termine “Maggiore”, ma con sole 360 transazioni. Agli esclusivi fini dell’imputazione della tecnica di dynamic keyword insertion, il CTU rileva che essa è stata utilizzata per soli due mesi e mezzo rispetto all’intero periodo contestato, ovvero 10 dicembre 2007 ed il 18 dicembre 2007 e tra il 28 dicembre 2007 ed il 7 marzo 2008. Durante questo periodo le visualizzazioni dell’annuncio della convenuta sono state 172.148, mentre i click eseguiti sono 66.648 e le prenotazioni 91. Questo ridimensionamento del numero delle violazioni provoca un ridimensionamento, soprattutto in punto liquidazione del danno subito da parte attrice, rispetto alle esose cifre richieste in sede di citazione in giudizio.

Le motivazioni della decisione

Dopo una dettagliata ricostruzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di tutela del marchio nei confronti della pubblicità tramite parole chiave con l’utilizzo dei motori di ricerca via Internet (il c.d. keyword advertising), i giudici palermitani si soffermano nel dettaglio del caso loro sottoposto. Innanzitutto, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, verificano la funzione di pubblicità del marchio “Maggiore” in conseguenza del fatto che secondo la Corte di Giustizia va riconosciuta la piena legittimità pubblicitaria del “keyword advertising”. Applicando i parametri indicati dalla corte di controllo sulle possibili lesioni delle funzioni di indicazione dell’origine e di investimento, i giudici palermitani rilevano un’attività di concorrenza sleale e di pubblicità ingannevole solo nel periodo di due mesi e mezzo in cui la convenuta ha utilizzato il servizio di dynamic keyword insertion, il quale consentiva il link diretto tra il marchio altrui e il suo sito Internet. Infatti, nel restante periodo in cui questa tecnica non veniva utilizzata, sulla base del link promozionale di Sicily Car e del messaggio commerciale allegato, l’utente consumatore era in grado di rendersi conto che il servizio fornito da Sicily by car era diverso e indipendente da quello fornito dalla Maggiore e in concorrenza con quest’ultimo.

L’impatto della decisione sulla responsabilità degli Internet service provider

Per quel che concerne il coinvolgimento delle società terze chiamate, il Tribunale siciliano esplicitamente afferma che le condotte di contraffazione del marchio e di concorrenza sleale sono state poste in essere esclusivamente dalla società convenuta. Infatti, la convenuta ha realizzato, attraverso la tecnica della dynamic keyword insertion, la visualizzazione del messaggio pubblicitario con il nome dell’attrice realizzato e diffuso dalla medesima convenuta attraverso il servizio di posizionamento a pagamento su Internet “Google AdWords”, il quale non coinvolge i risultati della ricerca. Il giudice sottolinea come il servizio Google AdWords “offre agli utenti/inserzionisti esclusivamente una piattaforma per la memorizzazione, consistendo in un software per l’ideazione, la creazione e il posizionamento in rete di annunci pubblicitari, il cui aspetto grafico e i cui contenuti, nonché i criteri per la visualizzazione, sono di esclusiva competenza e responsabilità degli inserzionisti stessi” (p. 47 della sentenza). Ne consegue quindi che non sia esigibile il dovere di controllo della corrispondenza a marchi di concorrenti di tutte le parole chiave indicate dagli innumerevoli inserzionisti.

Trib. Palermo, S.s.p.i.i., 7 giugno 2013, Pres. Maisano Pres., Ruvolo, Rel.